L’idea di Strade Parallele che poi si è trasformata in Mandeep e altri racconti.
Di Filippo Trojano
Da quando nel 2010 ho iniziato a frequentare Sabaudia mi è capitato spesso di incrociare lungo le strade della pianura migranti indiani in bicicletta a tutte le ore del giorno e della notte. La loro calma, il lento ritmo della pedalata mi facevano provare sempre una sensazione di qualcosa di nettamente diverso rispetto al ritmo di tutto ciò che attorno a loro in quel momento si muoveva. Questa sensazione aumentava quando mi capitava di incontrarli sotto terribili temporali. Completamente zuppi continuavano con costanza il loro viaggio.
Allora ho via via diminuito la mia velocità per poterli osservare meglio, accorgendomi che ognuno di loro mentre ci incrociavamo cercava il mio sguardo. Questa è stata la spinta profonda ad iniziare il progetto. Per poter cogliere l’espressione di un volto ho dovuto rallentare fino al punto di dover scendere dall’auto e camminare, per poi fermarmi; affascinato dalla curva di una strada, dal colore di un campo, dalle pieghe di una duna di sabbia o dai mattoni di una casa colonica. Lì ho costruito il mio teatro e ho aspettato. Quando poi “l’attore” è entrato in scena ho spostato il fuoco dallo spazio infinito al volto. Tutti gli scatti sono stati fatti con una Pentax medio formato. E devo ammettere che una macchina così su un pesante cavalletto è un’ottima esca anche per pesci molto furbi e diffidenti.
Questo lungo lavoro durato quasi dieci anni ha visto diverse fasi. Nel 2012 una parte delle immagini è stata presentata al Festival internazionale di fotografia di Roma, quando il tema era Work; poi nella sezione Off di Fotografia europea a Reggio Emilia, e a Fotoleggendo, il festival di fotografia organizzato da Officine Fotografiche a Roma.
Ma è stato grazie allo stampatore Davide Di Gianni ‒ che fin dalla sua nascita ha seguito il lavoro ‒ che nel 2020 abbiamo deciso di ripresentarlo; infatti mi ha invitato a riprenderlo in mano perché a suo giudizio aveva ancora una forte attualità. Così, confrontandoci nuovamente con Marco De Logu ‒ che nel frattempo aveva terminato il suo incarico di direttore dell’Istituto italiano di cultura a Londra ‒ abbiamo pensato di intraprendere una campagna di crowdfunding, sicuramente aiutati dalla situazione drammatica della pandemia: la costrizione a stare a casa ha stimolato enormemente la partecipazione di decine di persone, e in soli 18 giorni abbiamo superato il traguardo con 182 partecipanti da 10 paesi di tutto il mondo.
Questo ha significato che il lavoro aveva un suo valore e che era maturato in quasi dieci anni di costruzione. Nel momento del crowfunding stavo seguendo un corso su Augusto Pieroni, secondo me un raffinato studioso di arte a 360 gradi, ed è nata l’idea di proporgli di partecipare e di chiedergli un testo critico che riassumesse il senso del libro: il risultato è stato magnifico. Credo che oggi la modalità di una piattaforma con delle prevendite sia un modo molto intelligente e valido di proporsi una produzione dal basso. Non credo proprio che avremmo venduto così tante copie in poco più di due settimane se avessimo realizzato il libro con una filiera normale. Certo, si può pensare che in questo modo una casa editrice si assuma pochi rischi, ma se durante la promozione si crea un lavoro di lancio e di costruzione di partecipazione del così detto pubblico, si innesca un qualcosa di molto potente che ha anche un valore sociale, e forse politico, di diffusione di un’idea. Il successo del libro è una dimostrazione di grande fiducia e conferma della validità del progetto stesso, che prevede anche la costruzione di un laboratorio didattico triennale con i ragazzi di una scuola media di Sabaudia che, attraverso la fotografia e la scrittura, imparino a raccontare e raccontarsi.
Mandeep, a una visione esterna, si presenta come un progetto di matrice antropologica e guarda ai tanti importanti lavori realizzati fin dai primi decenni del ’900 da grandi maestri come Sander, Evans e Strand ma vuole anche essere un invito a una ulteriore riflessione e un tentativo di contatto tra due comunità che ancora viaggiano in parallelo.
«Difficile trovare il bandolo di una matassa multicolore intrecciata da decenni sotto il sole accecante della pianura Pontina che rende le cose piatte come quel marmo bianco tanto amato dagli architetti di regime; difficile capire e mettere in discussione coloro che ti hanno messo al mondo ed hanno raccontato la bella favola di aver bonificato una palude costruendo case, scuole e piazze; difficile accettare che costoro ti hanno anche accecato nei pensieri e nelle emozioni al punto da considerare “l’altro” inferiore e legittimarne una moderna schiavitù».
Siamo certi che le nuove generazioni, se capaci di amare profondamente una diversità, sapranno superare le barriere tramandate dalle generazioni precedenti.
Mandeep e altri racconti in fondo parla di due fenomeni migratori avvenuti a distanza di 80 anni l’uno dall’altro visti attraverso l’uso della bicicletta. Il progetto però non vuole entrare direttamente nelle storie delle singole persone fotografate ma lascia allo spettatore il compito di immaginare un vissuto dietro i tanti sguardi. La bicicletta fa da minimo comune denominatore, ma è anche una scusa, forse un pretesto.
Al tempo stesso questo lavoro vuole parlare anche di un territorio; le due strade principali, la litoranea e il lungomare, delimitano lo spazio nel quale il progetto è stato realizzato e proprio perché parallele rappresentano le due comunità che continuano a vivere le loro vite ancora troppo separate.
Se si rallenta il passo e si entra nelle storie della gente di questa terra ci si accorge di un cambiamento profondo che sta avvenendo e che stanno offrendo, da un lato, proprio queste persone venute dall’India, dall’altro quei pochi ancora in vita che un tempo migrarono dall’Italia del Nord e che racchiudono un mondo di storie nei loro volti silenziosi. Allora raccontare di tutte queste piccole forme di resistenza quotidiana «significa sperare che sulla via litoranea si costruisca finalmente una pista davvero ciclabile; che il mare, le due silenziose ruote, lo sguardo di una fotografia, rendano possibile quello che gli esseri umani, a volte, non sanno fare: parlarsi».
La terra pontina ha visto a distanza di ottanta anni due fenomeni migratori di vasta dimensione. I primi migranti veneti, friulani e marchigiani arrivarono durante il fascismo per la bonifica degli anni ’30 che portò alla costruzione delle città di Latina, Sabaudia e Pontinia; il fenomeno della migrazione degli indiani di etnia Sikh dal Punjab risale alla metà degli anni ’80 e da allora ne sono arrivati circa 25.000, anche se i dati ufficiali ne riportano circa 11.000. Attualmente la comunità tra Latina e Terracina è seconda per quantità solo a quella di Reggio Emilia.
I primi, nel tempo, hanno riscattato le terre che lavoravano diventandone i proprietari ed ora sfruttano i migranti indiani ‒ che oggi sono su tutti i giornali per gli episodi di sfruttamento o a causa dell’alta mortalità dovuta agli incidenti stradali ‒ facendoli lavorare in quegli stessi campi. Il radicamento della cultura coloniale e fascista, unito ad una mentalità provinciale tuttora presente, non permette di scardinare radicalmente un modo violento di vedere e rapportarsi con gli indiani. Solo i più ricchi tra gli indiani, inseriti da più tempo nelle trame del luogo, sono riusciti, con dinamiche legali e non, a costruirsi una vita diversa arrivando a comprare anche automobili e abitazioni, ma non è certo questo un segnale di vero sviluppo e integrazione culturale.
La maggior parte di loro, come i migranti arrivati ad inizio ‘900, tranne qualcuno che usa uno scooter, continua a spostarsi con la bicicletta, unico mezzo economico alla portata di tutti che non richiede regolarizzazioni e contratti assicurativi. Può capitare di vedere lungo le strade della pianura centinaia di ciclisti indiani dirigersi all’alba verso i campi e tornare di notte nella completa oscurità; con il sole cocente estivo o sotto un temporale in inverno. Per proteggersi dal freddo e dall’acqua indossano sopra i vestiti solo dei sacchi neri della spazzatura fermati con uno spago o dello scotch da pacchi. Lentamente continuano la loro vita al ritmo dei pedali e durante il lungo tragitto spesso parlano al telefono con i parenti del Punjab a cui ogni mese mandano parte del poco guadagno.
La gran parte dei mezzi con cui si spostano proviene da un traffico di biciclette rubate così come i tanti telefoni cellulari che quotidianamente vengono portati e venduti da strani personaggi che entrano nel “ghetto” del residence Bella Farnia, dove centinaia di indiani abitano in quelle casette a schiera con giardino che negli anni ’80 furono costruite come seconde case di vacanza per latinensi e romani.
Molti braccianti rischiano quotidianamente di essere falciati andando e tornando dai campi lungo le principali strade della pianura; le piste ciclabili, se fossero realizzate, sarebbero anche un incentivo al cicloturismo. Da anni se ne parla ma, grazie al continuo scarico di responsabilità tra i proprietari delle terre circostanti e l’ente Parco Nazionale del Circeo, le piste ancora oggi non esistono, e i braccianti continuano a essere in pericolo. Alcune associazioni e sindacati sono molto sensibili al problema e ricordiamo in particolare Flai-Cgil che ha donato centinaia di giubbetti catarifrangenti ai ciclisti per aumentarne la visibilità. Tuttavia quasi tutti continuano a girare senza luci e caschi.
Si potrebbe facilmente cadere nell’errore di credere che nulla si stia modificando, però, anche se lentamente, le cose qualcosa sta cambiando grazie alla ribellione dei lavoratori, costruita in molti anni insieme a cooperative sociali, associazioni – In Migrazioni, Rinascita civile – e sostenuta dai comuni più attivi ed aperti all’accoglienza dei migranti e alle loro problematiche. E grazie al lavoro onesto di alcuni titolari di aziende locali. Come persone ricordiamo il sociologo Marco Omizzolo per esempio.
Tutt’oggi le riunioni tra i membri delle associazioni e i Sikh continuano regolarmente al tempio indiano di Sabaudia e nonostante le minacce, il prezioso lavoro di sensibilizzazione delle associazioni, va avanti.
In questo stato di cose, di fondamentale importanza è la scolarizzazione dei giovani fin dalle elementari; la maggior parte degli studenti indiani si ferma alle scuole medie, pochi di loro arrivano al liceo o alle scuole superiori, ma il numero sta lentamente aumentando. Ad oggi si contano circa 50.000 studenti stranieri, principalmente rumeni ed indiani, iscritti regolarmente nelle scuole della provincia di Latina. La scuola è il terreno di maggior integrazione possibile tra i bambini italiani e stranieri, ma probabilmente i frutti di questo prezioso intreccio si vedranno tra almeno altri 10 anni.
All’inizio della prossima estate ci sarà la festa della così detta “pasqua indiana” che come ogni anno vedrà, Covid permettendo, l’arrivo di 40.000 indiani da tutta Italia e magari quest’anno per la prima volta potrà capitare di vedere qualche bambino italiano invitato da un compagno di scuola sikh a festeggiare con lui, assaporando cibi conditi con spezie esotiche dal sapore lontano.
Roma, 20 maro 2021